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CRITICA

Enrico Crispolti

Apparati critici al catalogo "Vitalità della tradizione pittorica europea nella pittura di Luciano Regoli", 1995, ERA Edizioni

IL “CASO” REGOLI

Luciano Regoli ha una convinzione precisa: che della pittura come mezzo di espressione/comunicazione sia più che mai necessario preservare (come effettiva trasmissione di sapere) tutta la specifica ricchezza tradizionale. Un patrimonio che per molti aspetti rischia infatti di andare perduto; un patrimonio che non è di ideologie estetiche, beninteso, ma di esperienze sul campo; di capacità di far dire di più, e in termini maggiormente flessibili, al mezzo pittorico in quanto tale (in implicita dialettica con altri mezzi attuali di comunicazione visiva).
La vicenda storica multiforme (fortunatamente) dell’arte contemporanea, nella ricerca di nuovi valori contro gli antichi, ha teso a spogliarsi di quella totalità (persino virtuosistica a volte) di conoscenze che facevano la pienezza tradizionale del pittore, fosse Manet o fosse Mancini; che erano insomma il terreno sul quale divenivano possibili le stesse decisive personali trasgressioni.
L’arte contemporanea ha teso a porre le proprie trasgressioni (nei modi più diversi: da Kokoschka a Permeke, da Matisse a Picasso, da Balla a Mondrian, da De Chirico a Ernst, da Klee a Fontana, se vogliamo) non entro ma contro quel patrimonio. Ha essenzializzato, ha spogliato. Nelle soluzioni e nelle traiettorie creative più memorabili, quell’essenzialità, quella concisione corrispondono alla fondazione di nuovi valori. I valori del nostro tempo, nei quali profondamente, per molteplici ragioni e in diversi aspetti, ci riconosciamo. Ma in una media diffusa di pratica pittorica conseguente come derivato (raramente di prima mano) da quelle fondazioni, ricorrono da tempo utilizzazioni realmente impoverite del mezzo pittorico, prive del sospetto (non dico delle capacità) di quale sia il patrimonio storico della pittura, appunto, come mezzo di connotante comunicazione visiva.
E così, quando come negli ultimi decenni si è manifestato un ritorno, per molti aspetti di pretesa restaurativa, quando si è manifestato un programmatico ritorno (sospinto anche da necessità di mercato, dopo il vuoto oggettuale causato dal “concettuale”) verso la pittura, si è ben visto, dai “transavanguardisti” agli “anacronisti”, come si invocasse il ritorno ad un linguaggio del quale si avevano idee assai approssimative (quando almeno se ne avevano).
Non si trattava, come pretendeva qualcuno, di una “nuova qualità” di pittura, ma di proposizioni ignare di qualsiasi nozione di cosa fosse stata e tuttora potesse essere la “qualità” della pittura. E basta avanzare il confronto con qualche reale grosso pittore dei nostri giorni (come Anselm Kiefer, per esempio) per rendersi conto di una incultura pittorica, che soltanto “trusts” di mercato e il vociare di critici sedicenti “militari” di ventura, a quel soldo, hanno posto in prima pagina.
In questa confusione Regoli, isolato, crede a due cose: appunto al mezzo pittorico nella sua integrità tradizionale, e alla necessità di difenderne il patrimonio di tramandi, di conoscenze e dunque di specifico “sapere”; e al rapporto, come si diceva un tempo, con il “vero”. La sua sicurezza suona come sfida, e vuole esserlo, sicuro come è che, se pittura deve essere, debba esserlo fino in fondo, in tutte le sue possibili qualità, e in tutte le sue capacità di connotata rappresentazione. In ritratti, in paesaggi, in nature morte. È una sfida alla critica, costretta a rileggere la pittura in qualità antiche. Ma è una sfida ovviamente anche a sé stesso,  destinato ad una possibilità di affermazione contro le semplificate misure più correnti.
Per intanto, giacché non intendo (né mai ho rinunciato ad intendere neppure negli anni dello spostamento sulle possibilità nuove sociali della comunicazione artistica, prima della grande restaurazione responsabile indubbiamente del vuoto ideale attuale), non intendo, dico, negarmi all’apprezzamento, al piacere dell’apprezzamento, anche della pittura, rappresentativa più pittura in tutta la sua ricchezza patrimoniale tradizionale, eccomi ad affrontare un “caso” Regoli. Il quale cerca la propria “occasione di pittura” nei ritratti (è fra i più abili e soddisfacenti ritrattisti in circolazione: lo fu negli oscuri maturi anni inglesi anche Schwitters), ritratti in genere ambientati, nelle nature morte, pure in genere ambientate e fatte di molti oggetti e nei paesaggi (di Roma, dell’Elba, dove vive, della campagna). Lo interessa cioè il fatto pittorico in quanto tale o meglio una trascrizione pittorica intimamente lirica, tonale, del rapporto emotivo con il “vero”, che vuole raccontare nella misura in cui gli si offre appunto come pretesto di pittura, di pura pittura.
Il suo è un tonalismo non timbrico, ma naturalmente giocato sul presupposto luminoso degli accorti e sottili passaggi di neutri. E questo tonalismo è al servizio di una disposizione sostanzialmente contemplativa, estraendosi dal tempo nella sua aggressiva storicità “ad diem” e disponendosi invece nel tempo fermo del puro lirismo di dialogo appunto sostanzialmente contemplativo. Solo questo infatti garantisce a Regoli la realizzazione di una situazione di piena pittura, che è dunque il suo vero effettivo interesse primario. Il nodo culturale sul quale si fonda linguisticamente tale sulla fiducia nella pittura è remoto: Morelli e il primo Mancini, in particolare, con qualche scarto verso Sargent, forse, e discendendo fino a Bartoli (non le allucinate asprezze di un Freud). A suo modo neoumanistica, il tratto d’attualità più evidente della sua pittura, è nella certezza del dato rappresentativo, pacato e totale.

Enrico Crispolti, Roma, marzo 1995

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